Come fare a incontrarlo?
Come guardarlo in faccia, senza piangere?
Mi vergogno.
Oltre al dolore e al senso di colpa, la vergogna è un altro sentimento che può colpire chi perde un bambino in gravidanza.
Può nascere da un profondo senso di fallimento: sono donna, sono stata creata per procreare, dicono; che succede, se non ci riesco?
Può nascere, a chi viene diagnosticata una patologia, dal sentirsi vittima di un destino avverso: perché proprio a me?
Quando ho scoperto di aver perso i miei figli a causa di una forma grave di incompetenza cervicale (IC) congenita, ho dovuto fare i conti con me stessa.
Mi sentivo una donna a metà, difettosa, malata.
Mi vergognavo.
Non volevo vedere nessuno.
Non riuscivo neanche a guardarmi allo specchio, come potevo reggere lo sguardo degli altri?
Poi pensai: ancora prima di essere donna, io sono un essere umano.
E in quanto tale, ci sono cose sulle quali non ho possibilità di scelta.
Sono nata così: con i cromosomi X e Y, i capelli ricci, una gran testardaggine e il collo dell’utero debole.
Certo, quest’ultimo mio difetto, ha avuto conseguenze disastrose.
Ma toglieva qualcosa della mia identità?
No. Rimanevo indiscutibilmente donna. Rimanevo, soprattutto, io.
Misi il mio vestito più bello e uscii.
Uscii di corsa, perché mi resi conto che ogni giorno passato sola a casa era un giorno in cui la davo vinta a lui, al mio difetto. Non glielo avrei più permesso. Non gli avrei più permesso di minare la mia identità.
Affrontai i vicini, gli amici, i parenti, persino il parrucchiere.
Decisa a dimostrare a me stessa che, sì, non avevo più la pancia, e nemmeno i miei figli sulla terra con me… ma non era finita lì.
Perché, ero sempre io: una donna dai capelli ricci, un essere umano.
L.H.
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